Riproponiamo con piacere e vivo apprezzamento un articolo a firma di David Fabrizi pubblicato su Frontiera il 23 settembre 2014. Una visione chiara, lucida, innovativa, su come risolvere un’annosa questione che riguarda tutti noi, che riguarda la città. Articolo scritto più di tre anni fa, ma ancora molto attuale… e già qui dovremmo ragionare su quest’ultimo punto.
“Non passa giorno senza che sui social network, nei bar e addirittura sui giornali, appaiano immagini e discorsi sul degrado urbano. Nonostante la buona volontà, il settore comunale delle manutenzioni sembra essere in un cronico stato di insufficienza. E questo affanno è certamente aggravato dagli atteggiamenti poco edificanti di qualche cittadino, che incurante continua a rompere e sporcare. Tolta la piccola riserva indiana dei “volontari per forza”, tutti gli altri affidano ad un’indignazione un po’ rassegnata e alla facilità di denuncia che ci regalano gli smartphone il proprio contributo e il proprio atto d’accusa all’assessore.
Il quale – da parte sua – sta lavorando con impegno ad un nuovo regolamento sul tema. A giudicare dalle bozze, il testo non sembra neppure del tutto spregevole, anzi, grazie all’apertura al contributo di tutti, potrebbe addirittura riuscire bene. Ma è fin troppo facile prevedere che rimarrà lettera morta: si possono coltivare le migliori intenzioni, ma per fare le cose ci vogliono le risorse, e il Comune – è cosa nota – non le ha.
L’ambito è ristretto, ma si può prendere ad esempio di una situazione più generale. A caratterizzare il nostro tempo c’è un’inspiegabile distanza tra domanda e offerta. La domanda di manutenzione della territorio, urbano e naturale, ad esempio, è fortissima. E l’alta disoccupazione indica che c’è una enorme offerta di forza lavoro da mettere in moto. Un amore felice sembra essere a portata di mano, eppure queste due realtà non riescono a celebrare le nozze. Il motivo è lo stesso di tanti altri matrimoni mancati: manca un fattore che oggi sembra necessario per tenere insieme quasi ogni rapporto: il denaro.
C’è stato un tempo in cui lo Stato sembrava sempre in grado di averne per i suoi bisogni, forse perché all’occorrenza lo stampava. Oggi che i padroni della moneta sono le banche, anche lo Stato sembra costretto a chiedere l’elemosina, a rinunciare a fare quel che serve, a tirare la cinghia. Che poi vuol dire tagliare la Sanità, o lasciar cadere i muri di Pompei, o non essere più in grado di pulire le strade dalle cartacce.
Almeno così sembra a me, che di economia non capisco molto. E forse è per colpa di questa ingenuità che mi è venuta l’idea che adesso vi dico. Mi è venuto in mente che per poter retribuire il lavoro di un maggior numero di addetti alle manutenzioni, il Comune potrebbe battere una sua moneta. Magari l’emissione di denaro vero e proprio non è possibile, ma forse potrebbe pagare il lavoro svolto per suo conto con una qualche forma di cambiale circolare.
E stringendo con i sindacati, la Camera di Commercio, le associazioni degli artigiani e dei commercianti un “patto di fiducia”, il Comune potrebbe far sì che questi titoli vengano accettati per il pagamento di beni e servizi in città. In questo modo si riuscirebbe a far lavorare più persone, ma gli esercizi commerciali si garantirebbero una clientela che ha una “moneta”spendibile soltanto da loro.Va da sé che per chiudere il ciclo il Comune dovrebbe accettare le sue stesse cambiali a saldo dei tributi locali. A quel punto potrebbe decidere se distruggerle o rinnovale, ma nel frattempo avrebbe fatto crescere le attività e gli scambi.
La mia è senz’altro la fantasia di uno sprovveduto, ma ho letto che in alcune realtà italiane ed europee questo genere di esperimenti sulla “Moneta alternativa”, la “Valuta complementare” o la “Valuta locale”, stanno portando qualche giovamento, riuscendo a sostenere l’economia locale, offrendo ai giovani e agli esodati la possibilità di lavorare, e facendo funzionare i servizi pubblici locali senza doverli per forza esternalizzare.
Dunque perché non provare a ragionarci sopra? Riuscire in questo genere di tentativo equivarrebbe a disporre di una “moneta” concepita come strumento che la comunità offre a se stessa per portare a soddisfazione i propri bisogni. Anche se potrebbe costare agli eletti la fatica di uscire dalla logica dell’amministratore per entrare in quella un po’ più cristiana dell’animatore di comunità.”