Ecco la storia.
«Ecco lo storia» esordirebbe lo scrittore Daniel Pennac. Ebbene: ecco a voi la storia della prima edizione del Reate Festival. Una storia fatta di rincorse ed attese, di incontri, di amicizie, di enormi sforzi, di impegno e dedizione, di intuizioni e di appassionata coerenza. È una storia nel corso della quale si incrociano il destino del Belcanto, quello di un teatro, quello di una città, della tradizione artistica italiana e del suo futuro.
Sì perché – un giorno speriamo di poterlo dire – “venne il Reate Festival” che cambiò la città di Rieti. Sicuramente cambiò il modo in cui la città di Rieti percepiva se stessa, il modo in cui i suoi abitanti erano abituati a viverla e vederla. Soprattutto, cambiò il modo in cui il mondo guardava a Rieti: scoprendola improvvisamente come una delle capitale mondiali del Belcanto.
L’occasione perduta.
Il Festival della città di Rieti è un prodotto culturale prezioso, raro e inaspettato. Ha avuto una gestazione lunga che, per certi aspetti, inizia nel 1957.
In quell’anno il maestro Giancarlo Menotti arriva a Rieti e si innamora del Teatro Flavio Vespasiano e della sua acustica.
La sua idea di fare della nostra città un centro di richiamo per giovani artisti provenienti da tutto il mondo che si esibiscano nel capolavoro architettonico ottocentesco di Achille Sfondrini non trova risposta nel Consiglio Comunale di allora.
Non vengono comprese le potenzialità insite in una serie di spettacoli dal vivo. Giancarlo Menotti, scambiato per una sorta di visionario e poco affidabile Phineas Taylor Barnum, ne prende atto e approda a Spoleto. Ne nascerà il “Festival dei due Mondi”: ma questa è un’altra storia. È da allora però che inizia la storia di un’occasione perduta e poi ritrovata.
Il progetto ed i suoi protagonisti.
Più di cinquant’anni dopo l’occasione si ripresenta grazie ad alcuni incontri fortuiti e casuali, ma questa volta le istituzioni e tutte le personalità coinvolte operano con lungimiranza, brillante ostinazione ed accortezza.
Da questa nuova ed intelligente comunità d’intenti nascerà la prima edizione del Reate Festival, che ha percorso col suo fermento artistico e culturale, con una vitalità elettrizzante, la Città di Rieti già prima del 16 agosto, data del Concerto di apertura.
I due studiosi si incontrano nel 2006, quando il Museo Civico di Rieti sta organizzando una mostra sul pittore reatino Antonio Gherardi. Vi è un quadro, di particolare pregio e bellezza, raffigurante Santa Cecilia. Il caso vuole che il quadro sia conservato presso la Cappella di San Carlo ai Catinari di proprietà, appunto, dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
Da quegli incontri, però, emerge la prima straordinaria intuizione che sta alla base del Reate Festival. Anni addietro il Professor Bruno Cagli è stato invitato a presentare dei concerti al Teatro Flavio Vespasiano di Rieti e ha potuto sperimentare in prima persona che esso offre la migliore acustica del mondo.Intanto, proseguono i lavori di restauro iniziati nel 2005, che il Professore segue a distanza con attenzione e scrupolo. È importante che sala e palcoscenico non vengano toccati, che non venga aggiunta inutile tappezzeria che rovinerebbe un’impareggiabile acustica.
Solo così si potrà mantenere l’originaria concezione dell’architetto Sfondrini: un teatro che non costringa i cantanti a “spingere” le voci.
Come il Professor Cagli ricorda in diverse occasioni, lo stesso Gioachino Rossini, dopo il suo precoce ritiro dal teatro, si rammaricava di come cominciasse ad andare di moda “il canto con l’elmo”: un canto spinto, innaturale. Vi è invece la tradizione di una tecnica di canto virtuosistico caratterizzata dal passaggio omogeneo dalle note gravi a quelle acute, dall’agilità nell’ornamentazione e nel fraseggio e dalla concezione della voce come strumento: è il Belcanto.
Il Belcanto è naturale, non è spinto, non deve basarsi su un eccessivo impegno fisiologico richiesto alle voci.
Esso è innanzitutto un patrimonio prezioso, anzi, inestimabile della tradizione artistica italiana: un patrimonio che nel tempo è andato perduto e che, grazie ad un teatro come il Flavio Vespasiano di Rieti, si può ora recuperare. Il Teatro Flavio Vespasiano è quindi la sede eletta ed ideale in cui recuperare il Belcanto: permette il perfetto rapporto voce-orchestra.
Dello stesso avviso un’altra personalità autorevole: il Maestro Carlo Rizzari. Allievo del grande direttore Carlo Maria Giulini e assistente di Antonio Pappano, il Maestro Rizzari dirige il Concerto di apertura del 16 agosto E ‘l cantar che ne l’anima si sente.
Dopo il concerto Rizzari affermerà di aver percepito uno straordinario ed assoluto bilanciamento tra le voci dei cantanti di Opera Studio e le note della Tafelmusik Orchestra, l’ensemble canadese che suona su fedeli riproduzioni degli strumenti dei secoli XVIII e XIX e venuta appositamente dal Canada per il Reate Festival.
Tuttavia Nagano ammette di aver rinunciato a dirigere esibizioni di questo tipo perché non dispone degli strumenti vocali, né di quelli testuali.
Da quel momento nasce tra i due una profonda amicizia, alla quale si unisce una fraterna intesa musicale. Gli strumenti vocali ci sono: si tratta dei giovani talenti di Opera Studio, la scuola di alto perfezionamento in canto lirico diretta da Renata Scotto e divenuta un modello in tutto il mondo. Gli studenti di Opera Studio sono “giovani” solo per quanto attiene all’età, in verità essi sono già a livelli altamente professionali.
Si esibiscono a Rieti il 10 gennaio del 2009: in occasione del concerto che inaugura il Teatro Flavio Vespasiano dopo il periodo di restauro. In quella felice occasione, Gianni Letta accetta la Presidenza della Fondazione Flavio Vespasiano, costituita nel 2008.Ne sono soci fondatori: il Comune di Rieti, la Cassa di Risparmio di Rieti, la Fondazione Varrone e la Camera di Commercio di Rieti.
Essa è un ente che intende promuovere nella città di Rieti la diffusione e lo sviluppo delle diverse forme di spettacolo dal vivo: dal teatro di prosa alle esibizioni musicali lirico-sinfoniche, dalle manifestazioni jazzistiche e sperimentali alla danza classica e contemporanea. Il Reate Festival è solo la prima di una serie di iniziative proposte dalla Fondazione.
A lui l’incarico di fare del Reate Festival una rassegna dallo spessore internazionale, oltre che un volano per lo sviluppo economico della città di Rieti. Oltre che della conoscenza del territorio e delle sue potenzialità, Latini è forte della sua esperienza professionale e accademica.È stato Amministratore Delegato della Fonit Cetra e Presidente del Reggio Parma Festival per diverse edizioni. Inoltre, ha insegnato “Strategia per lo spettacolo dal vivo” presso l’Università di Parma.
È stato docente di Strategia all’IFE (Istituto di Formazione Europeo) e presso la Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Bocconi di Milano, dove collaborato con il Centro di Ricerca per l’Organizzazione Aziendale.
La globalizzazione ha ormai investito anche i territori che, per non subire con dannosa inerzia questo processo, devono consolidare, promuovere e valorizzare il patrimonio artistico-culturale che proviene dal loro passato per farne strumento di competizione economica, culturale ed identitaria.
Vi è infatti la necessità di ricreare e recuperare per i territori un’identità: è quest’ultima che permette di far comprendere ai “pubblici potenziali” chi si è e di soddisfare il loro bisogno di nuova conoscenza.
Il passaggio da un’economia del secondario ad un’economia del terziario e dell’ “immateriale” ha reso la produzione culturale un fattore cruciale di sviluppo. In questo modo, nelle intenzioni di Carlo Latini, Rieti deve ridisegnare la propria identità in modo da costituire un “distretto culturale”.
Solo in questo modo, il capoluogo sabino potrà divenire un contenitore di scambi, un centro che permetta di importare ed esportare cultura, creando un volano per la crescita territoriale.
Suo l’Alexanderplatz: lo storico Jazz Club del quartiere Prati, punto di riferimento per i maggiori musicisti stranieri ed italiani. Sua Villa Celimontana: la manifestazione Jazz regina dell’estate romana.
La grandezza e l’importanza delle rassegne create da Rubei si possono comprendere citando le manifestazioni da lui organizzate all’estero: il Festival del Jazz italiano a New York (2005) e il Festival del Jazz elettronico italiano in Israele.
E ancora: Atene, Pechino, Shenyang, Kuwait City, Seoul, la Finlandia, la Polonia e la Spagna. Rubei ha portato il Jazz in Italia ed il Jazz italiano nel mondo.
È stato insignito dei più prestigiosi premi e di innumerevoli onoreficenze. Tra questi: il Premio Bordighera, il Gonfalone d’Oro, l’Ulivo d’Argento, il Premio Giovannini ed il Premio Platea d’Estate.Mostra Alla ricerca di suoni perduti.
Sono pianoforti, clavicembali, spinette, virginali, salteri, arpe, liuti, fortepiani e mandolini perfettamente restaurati e conservati e, quindi, funzionanti.
La generosa e carismatica Signora Giulini ha prestato dodici dei sessanta strumenti che compongono la sua collezione dall’ incalcolabile valore artistico, storico e musicale per tutta la durata del Reate Festival. In questo modo, il foyer del Teatro Flavio Vespasiano diviene “un gioiello nel gioiello”.
Gli strumenti affascinano e catturano lo sguardo per i secoli di storia della musica che racchiudono, ma anche in virtù delle pregiate e splendide fatture. Basti pensare al Fortepiano a coda Joahnn Fritz, realizzato a Vienna nel 1830, dalla magnifica tastiera in madreperla.
Vi sono poi i salteri: strumenti cordofoni, il cui suono è cioè prodotto dalle corde, come avviene per i fortepiani e per le arpe. In genere, è possibile ammirare questi strumenti solo nei dipinti: la tradizione iconografica occidentale li rappresenta sempre imbracciati dagli angeli.
Questo stilèma ci ha abituato a pensare che essi non esistano nella realtà, mentre la mostra ci permette di ammirarne ben due esemplari databili intorno al 1800.
Oltre all’arpa a pedali a movimento semplice opera di Godefroid Holtzman (Parigi, 1775) e a quella di Jean-Henri Naderman del 1790 (Parigi), vi sono due non meno rare e preziose arpe a pedali a movimento doppio opera di Sébastian Erard (Londra, 1821 e 1825).
A ciascuno strumento è abbinata una traccia audio. L’impareggiabile valore artistico si sposa con il piacere dell’interattività consentito dalle nuove tecnologie.
Aspettando il Festival
«Finalmente la città ha preso piena coscienza dell’inizio di una situazione che non può non determinare una decisiva svolta non soltanto culturale ma anche economica per il nostro territorio – ha dichiarato il primo cittadino – non ritengo di sopravvalutare l’evento nel parlare di “eccellenza” dell’approccio a quella che sarà una rassegna di altissimo pregio artistico. Insomma, un vero incanto. Di fatto Rieti così non l’avevamo mai vista».
Merito soprattutto del regista Ivan Tanteri che ha precipitato il centro della città in un sogno dipinto di bianco. Insieme a lui, artefici di un inaspettato e riuscito prodigio, sono stati gli attori, i cantanti ed i musicisti di “Silence Teatro”, “Livaraja”, “Giardino dei suoni” e “Teatro immagini”.Un pubblico spaesato, ma decisamente attratto dall’enigmatica seduzione di musiche, melodie, danze e quadri viventi, ha applaudito la giovane e bravissima Francesca La Rosa che, in un raffinato abito d’epoca, ha interpretato celebri arie d’opera come “Una voce poco fa”, tratta da Il barbiere di Siviglia. Rimarrà indimenticabile il suo assolo “Vissi d’arte” della Tosca, cantato proprio dal balcone del Palazzo di Città.
«D’ora in poi sarà ben difficile guardare con gli stessi occhi questo come altri scorci di Rieti- ha sottolineato il Sovrintendente della Fondazione Flavio Vespasiano, Carlo Latini – le scale del Palazzo delle Poste Centrali, le terrazze di Via Garibaldi e le grandi finestre dalle quali si sono affacciati teatranti immersi nel bianco di vesti e volti dipinti, a significare l’atmosfera di sogno e ricordo, il viaggio nella fantasia. Un’iniziativa di grande originalità, quella di “Aspettando il Festival”, che ha entusiasmato alla grande garantendosi una partecipazione di pubblico che è andata ben oltre le più rosee aspettative. Rieti è ormai indissolubilmente legata all’idea del distretto culturale.».
Applauditissimo anche Luca Mazzei che, anche lui in abito d’epoca, si è egregiamente cimentato insieme alla La Rosa in diversi duetti, quali: “Tace il labbro” da La Vedova Allegra di Franz Lehàr e Musica proibita, suggestiva romanza di Stanislao Gastaldon.
Ad accompagnarli, il violino di Daniela Sangalli, del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto e la pianista Meriangela Milone. Hanno incantato anche la raffinatissima voce di Viola Zamattio e l’abile e appassionata chitarra di Daniele Lupi. E hanno incantato le magnetiche danze di Daniela Evangelista.
«Insomma – ha concluso il vice presidente della Fondazione Flavio Vespasiano, Gianfranco Formichetti – i presupposti per un coinvolgimento pieno della gente ci sono tutti.
Né poteva essere diversamente data la caratura della rassegna culturale. Del resto, nei momenti importanti, Rieti ha sempre risposto bene». Ieri sera l’ennesima conferma in occasione non solo dello spettacolo “Incanti.
Note Viandanti” ma anche delle esibizioni dell’Ensemble Hyperion (che ha accompagnato una compagnia di danzatori di tanghi argentini in una sorta di movida che ha coinvolto il pubblico presente) e della Blue Side Big Band (una delle pochissime orchestre stabili di jazz in Italia, composta da 19 musicisti professionisti, il cui repertorio ha spaziato dallo swing anni ‘30 al jazz moderno, tra la fusion e il funky).
Coriandoli, fuochi d’artificio ed enormi palloni bianchi lanciati nel buio della notte hanno salutato un futuro che si chiama Reate Festival.
Il Tancredi di Rossini avrà la voce dell’eccezionale mezzosoprano Anna Goryacheva. Sarà la sua cabaletta ad accendere «di tanti palpiti» il pubblico del Teatro Flavio Vespasiano. E, forse, qualche “intenditore” in platea o nei palchetti, rammenta come siano stati proprio questi “palpiti” a dare enorme popolarità a Gioachino Rossini.
Ad accompagnare le voci sublimi dei talenti di Opera Studio c’è la Tafelmusik Orchestra, col suo sapiente scintillio di pittoresche note “d’epoca”, superbamente diretta da un Carlo Rizzari intenso, appassionato e vibrante.
E Rieti è lì che lo aspetta e non rimane delusa. È un concerto che ha cantato in Sabir: la lingua franca barbaresca parlata nei porti del Mediterraneo dal XVI secolo fino al 1915 da marinai, pirati, e commercianti. Saranno i francesi, dopo la presa di Algeri del 1831 a chiamarla Sabir.
È fatta di una suggestiva miscellanea di termini catalani, siciliani, francesi, arabi, occitani, romeni, turchi e spagnoli. Anche il nome del concerto – Marea Cu Sarea – è anche il titolo di uno dei brani più suggestivi. Viene da un proverbio romeno che significa: “promettere il mare con il sale”, cioè “promettere e non mantenere”. Un detto tipicamente marinaro.
Le tre cantanti Ramja, Barbara Eramo e Desirè Infascelli intonano arcane e nostalgiche melodie nella lingua che unisce tutto il Mediterraneo. Gli arabi ed altre popolazioni avevano creato il Sabir – questa sorta di esperanto marinaro – perché non volevano parlare la lingua dei Crociati. Così, paradossalmente, essa rappresenta «la lingua del dialogo possibile», come spiega lo stesso artista reatino dopo il concerto.
Un dialogo fra le culture mediterranee e le emozioni del pubblico.
Ne illustra le vicende, narrando le vite dei compositori italiani in Francia ed in Inghilterra: Giovanni Simone Mayr, Gioachino Rossini, Vincenzo Bellini, Gaetano Donizetti, Luigi Gordigiani, Francesco Paolo Tosti, Luigi Denza, Ruggero Leoncavallo e Luigi Arditi.Il Teatro Flavio Vespasiano si trasforma in una macchina del tempo, si impregna di quelle vite e di quella storia. Cagli ci mostra quanto poco sappiamo della storia di un’arte che parla italiano e di una tradizione che è nostra prima che di altri e che noi per primi dovremmo conoscere.
Così, melodie ed arie dei giovani prodigi di Opera Studio si susseguono ed è come se si stessero sfogliando le pagine di un tomo raro e prezioso di storia della musica. Il giovane tenore Antonio Poli canta in maniera indimenticabile le famose Ideale, Sogno e L’alba separa dalla luce l’ombra di Tosti.
Così impariamo anche noi che prima della pubblicità c’è… la storia: in questo caso la storia d’amore tra Luigi Arditi e la Marchesa Marietta Piccolomini Caetani della Fargna.
Fu nell’impeto dell’ispirazione che Arditi scrisse per la Piccolomini Il Bacio sulla manica della propria camicia. Quella sera, quella passione rivive nella giocosa ed appassionata interpretazione di Paola Leggeri. I più conoscono quel brano perché l’aria principale (“sulle labbra”) è divenuta celeberrima sul piccolo schermo grazie ad una pubblicità.
Quella è anche la prima sera durante la quale, “canta” anche il prezioso pianoforte del grande Massimiliano Murrali. È proprio il caso di dire: “peccato per chi non c’era”.
Ci sono tutti: Gianni Letta venuto appositamente da Roma, lo stesso Formentelli e, soprattutto, c’è Marc Pinardel.
Il musicista viene inghiottito dalla mole dei 14 metri di altezza dell’organo.
La consolle è infatti nascosta alla vista del pubblico, ma due telecamere collegate ad altrettanti schermi posti sui lati della grande navata permettono di vedere il grande improvvisatore all’opera.
Pinardel fa rivivere il faticoso miracolo della meccanica pura: le cinque tastiere e la pedaliera estesa di 30 tasti, i 57 registri di potenza e le 4054 canne.
La Toccata e Fuga in Re Minore di Johann Sebastian Bach stupisce ed incanta.
Pinardel, però, riesce ad esprimere al meglio le potenzialità del Pontificio Organo nella seconda parte del concerto, quando “risponde” alla proposta di alcuni poemi.
La Verde Miccia di Dylan Thomas, La musica Charles Baudelaire e i versi dei lirici greci tradotti da Salvatore Quasimodo divengono note e suoni inaspettati, come l’Inno d’Italia o la Rapsodia in Blu di Gershwin richiesti dal pubblico.
Dee Dee Bridgewater si è sentita subito amata da Rieti e ha deciso di ricambiare. Ecco allora che canta con l’impeto inarrestabile della sua passione. Canta e danza: col suo abito dai colori accesi e la testa rasata. Balla con le note della sua band.
Sì, perché ad essere fenomenale non è solo lei, ma anche il piano prodigioso di Edsel Gomez, le percussioni elettrizzanti di Pernell Saturnino, i ritmi irrefrenabili della batteria di Minino Garay. Decisamente fenomenale è Ira Colemann che fa ammutolire il pubblico con i suoi assoli di contrabbasso.
Hanno tutti un paio di passaporti e vengono dall’Argentina, dalla Svezia, dagli Stati uniti, da Cordoba. Creano la miscela esplosiva che accende il pubblico: ricreano le atmosfere dei primi Jazz Club, dove si incontravano artisti provenienti da tutto il mondo.
È così che il Jazz è diventato un linguaggio universale, in grado di parlare a tutti. Tra il pubblico ci sono anche i giovani di Opera Studio che guardano Dee Dee agitare il suo ventaglio verde e modulare la voce in mille modi diversi: ora nostalgica, ora sensuale, ora vibrante e struggente.
Con lui, in teatro, c’è sempre il Professor Cagli. Ci sono quelle voci che vengono da ogni parte del mondo: Mariusz Kwiecien (polacco), Philippe Do (vietnamita), Borja Quiza Martinez (spagnolo), Steven Humes (statunitense), Jessica Pratt (australiana) e i tre italiani: Carmela Remigio, Grazia Doronzio e Alex Esposito. E ci sono le voci della Corale Luca Marenzio diretta dal Maestro Martino Faggiani: una perfetta polifonia che lascia stupito lo stesso Nagano.
L’elegantissimo e affascinante Borja Quiza Martinez nei panni di Masetto ha colpito per gli incantevoli duetti con la virtuosa Grazia Doronzio (Zerlina). E c’è il canto accorato, struggente e perfetto di una Donna Anna straordinariamente interpretata da Jessica Pratt. Se la voce di Donna Elvira (interpretata da Carmela Remigio) è stata mirabile e seducente, il momento di trascendente pathos arriva al termine del secondo atto, che vede quasi tutti i protagonisti del dramma cantare il celebre monito
Il 20 agosto sono di scena le Liriche vocali napoletane con musiche di Cottrau, Mercadante, Donizetti, Bongiovanni, Cardillo, de Curtis, Tagliaferri, Tosti, Lama.
L’ensemble, di sei elementi: Massimo Iannone, tenore; Massimiliano Tonsini, tenore; Renato Vielmi, basso; Mascia Carrera, soprano; Maura Menghini, soprano; Patrizia Roberti, soprano accompagnati dal pianoforte di Paolo Tagliapietre sono protagonisti di un programma interamente dedicato al repertorio popolare partenopeo rivisitato in una veste colta e nel contempo spettacolare.
Oltre 400 spettatori hanno assistito all’ultimo degli spettacoli in cui si è articolata la sezione Jazz.
Ad aprire la serata Electricity, brano dedicato all’elettricità della musica, che ha subito catturato l’attenzione dei presenti grazie all’abilità con cui il dj Tiziano Ribiscini ha sapientemente suonato il theremin.
L’ampio repertorio dei brani eseguiti (da Ostibolero a Groove 162, passando a Brother Breath e Taka) ha ben reso l’idea di come il New Jazz, protagonista sul palco allestito in piazza Cesare Battisti, si sostanziasse in una vera e propria fusione di funk, jazz, soul e musica elettronica.
Un genere, questo – ha spiegato Karl Potter – radicatosi essenzialmente nell’ultimo decennio con gli Ostinato Elektro Orchestra.
Sul palco in piazza Cesare Battisti, Lisa Maroni (voce) ed ancora Andrea Belli (sax e live electronic), Giacomo Anselmi (chitarra), Fabio Picchiami (tastiere e live electronic), Alessandro Bossi (basso) e Alessandro Ricci (batteria).
A conclusione degli spettacoli della sezione jazz, Giampiero Rubei, direttore artistico di alcuni dei più importanti Festival Jazz nel mondo non ha potuto che esprimere piena soddisfazione per un Festival di grande successo che ha fatto leva sulla combinazione belcanto-danza-jazz.
Per la prima edizione, tre le compagnie italiane, note sia nel panorama nazionale che in quello internazionale, che hanno danzato su un progetto originale che ha unito la danza con il Belcanto.
Botega di Enzo Celli, nota per la danza urbana e da poco rientrata dalla Palestina dove si è esibita proprio su coreografie ispirate al Belcanto; Centro Regionale Danza Lazio di Mvula Sungani, una delle compagnie più celebri in Italia e all’estero; Balletto Granducato di Toscana di Pierluigi Martelletta, con coreografie ispirate al Belcanto napoletano.
La serata ha visto la presenza sul palco di special guest quali Anbeta Toromani nota ballerina televisiva e Mara Galeazzi, Principal Dancer della Royal Opera House di Londra, una tra le ballerine più importanti del panorama internazionale.
E ancora, Alessandro Macario, primo ballerino ospite del Teatro San Carlo di Napoli che, sin da giovanissimo, si è esibito con le compagnie del Teatro alla Scala di Milano e del Teatro dell’Opera di Roma, Yumiko Takeshima e Raphael Coumes-Marquet, primi ballerini dell’Opera di Dresda.
Nei giorni scorsi il Professor Bruno Cagli e il Maestro Kent Nagano hanno fatto comprendere come la nostra città sia chiamata a divenire uno dei centri internazionali del Belcanto.
Il recupero di questo patrimonio culturale inestimabile ha iniziato un percorso nuovo che vede in Rieti un centro fondamentale.
«Ormai possiamo affermare che la strada internazionale del Belcanto passa di qui» dirà un paio di giorni dopo Gianfranco Formichetti, Assessore alla Cultura e Vice Presidente Vicario della Fondazione Flavio Vespasiano.
Questa sera, Carmela Remigio veste i panni della dea Giunone, interpretando la Cantata Pel faustissimo giorno natalizio di Sua Maestà il re Ferdinando IV, nostro Augusto Sovrano.
Ed è con la grazia e la fiera potenza della sua voce di dea che il soprano incanta la Piazza Cesare Battisti.
I suoi agili e virtuosistici fraseggi si rincorrono con la sfavillante pioggia di note della Tafelmusik. L’avvincente marzialità della Corale Luca Marenzio crea un pathos alto e solenne.
Un connubio perfetto, che fa rivivere quella sontuosa “cascata di suoni” come era stata originariamente concepita dallo stesso Beethoven.
Il Belcanto è stato ritrovato: adesso occorre farlo conoscere nelle sue espressioni e nelle sue forme originarie. Il compito, difficile, avvincente ed irrinunciabile, tocca alla nostra città di Rieti.