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domenica 14 Settembre 2025
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L’Omelia del Vescovo Pompili in occasione del funerale del giovane Francesco Ventrone

Stamane si è tenuto a Rocca Sinibalda (Rieti) il funerale di Francesco Ventrone, morto a soli 26 anni nell’incidente stradale avvenuto sulla via Salaria per Roma.

Di seguito l’Omelia del Vescovo di Rieti Monsignor Domenico Pompili, che ha officiato la celebrazione: “Adesso la mia anima è turbata. Che devo dire?”. Così Gesù definisce il proprio stato d’animo, dopo aver raccontato una breve parabola: “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Ci sono altre due occasioni in cui si fa riferimento al turbamento di Gesù ed entrambe indicano la sua emozione all’avvicinarsi della propria morte.

La prima è davanti alla tomba di Lazzaro: dopo aver pianto, rimase “ancora profondamente turbato”. La morte di chi ci è caro, come Francesco, è anche un po’ la nostra morte, perché con lui se ne va un pezzo della nostra vita. Niente sarà come prima qui a Rocca Sinibalda: ci mancherà il suo tratto gentile, la sua concretezza, il suo altruismo; lui che si era inventato un lavoro a distanza, pur di non starsene a poltrire. Torniamo per un attimo ancora a Gesù che è turbato anche dopo l’annuncio del tradimento di Giuda. In questo caso Egli è scosso non solo per via del tradimento, ma anche perché presagisce la sua fine imminente. Se noi oggi siamo così turbati, scossi, attoniti è perché si fa chiaro il destino comune che ci attende.

Per fortuna, non c’è solo il turbamento nel brano evangelico, ma anche una voce dal cielo: ”L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò”. Parole certo misteriose che squarciano il velo del turbamento per aprirsi ad un futuro che non viene da noi, ma soltanto da Dio. Del resto, a pensarci la vita stessa è un dono che ci precede: chi ha chiesto di venire al mondo? Non siamo stati – prima ancora di esserci – pensati e desiderati da altri? Dunque, l’invito è a non lasciarsi rinchiudere dal turbamento, ma ad attraversarlo con il Maestro. Senza Gesù che condivide fino in fondo la morte non sarebbe possibile sperare. Per diventare nostro fratello, ha voluto anche Lui tremare di paura, come noi tremiamo al solo pensiero della perdita di chi e di ciò che è vitale per noi. Egli ci capisce: Lui stesso ha provato fino a tremare quanto costa perdere. Per questa ragione, chi Lo ha seguito, sin dall’inizio, non ha inteso inseguire una dottrina, tantomeno ad un codice di comportamento, ma una speranza. Quella che è scritta, nero su bianco, in una catacomba del primi secoli: “In vivis, Tu”: “Tu, morto, sei tra i vivi”. Questo vuol dire credere.

Ed è quanto alimenta il nostro impegno quotidiano che sa, come Francesco, rimboccarsi le maniche e mettersi a servizio degli altri. Anche quando si tratta di porre mano con decisione e tempestività alla grande questione delle infrastrutture , se non vogliamo che il nome Salaria, la ‘via del sale’, cioè della vita, si converta in Malaria, la via del male e della morte: 4 vittime in 48 ore! Francesco ci dice anche questo, lui che è ai nostri occhi come “il chicco di grano, caduto in terra, che produce molto frutto”.

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